Come erano e come vivevano i primi cristiani?

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illustration-of-the-apostle-paul-teaching[1]Animati da una fede esclusiva che non ammetteva compromessi, i cristiani rifiutavano qualsiasi partecipazione ai culti tradizionali: cerimonie e feste in onore degli dèi, ma anche forme di sodalità a esse collegate come banchetti e spettacoli, nonché il consumo della carne durante riti sacrificali.

Alcuni mestieri o modi di vivere erano incompatibili con il battesimo e costringevano quindi a rifiutano o a rimandano: in particolare tutto ciò che aveva a che fare con i culti, con i templi, con la divinazione, e a maggior ragione con la magia, l’anfiteatro, il circo o il teatro e la prostituzione, ma anche il mestiere di soldato, le magistrature che comportassero il potere del gladio e/o il compimento di riti in onore degli dèi o degli imperatori non potevano concordare con il rito battesimale. I cristiani, quindi, si tenevano alla larga da una parte della vita pubblica, e venivano per questo accusati di misantropia e di «odio per il genere umano» (Tacito). Siccome la loro fede determinava pratiche religiose specifiche, sia individuali che collettive, i cristiani venivano sospettati di essere una setta pericolosa dedita a una «vana e folle superstizione», dal momento che adoravano come dio “un criminale debitamente condannato da un magistrato romano al più infame dei supplizi, quello della croce”. Venivano accusati, erroneamente, di compiere riti terrificanti o immorali uccisione di bambini, cannibalismo, magia — e di costumanze sessuali depravate. Infine, erano disprezzati dagli intellettuali e dagli ambienti colti. Per il filosofo Celso (verso il 178), per esempio, erano persone di «suprema ignoranza», «senza educazione» né cultura, che abbindolavano spiriti deboli (donne e bambini, artigiani, schiavi e liberi approfittando della loro credulità e mettevano dunque in pericolo la famiglia e la società.

A queste accuse i cristiani replicavano: «Noi non facciamo niente di male», i nostri costumi sono puri. «Noi viviamo con voi, conduciamo lo stesso genere di vita», scriveva Tertulliano Verso il 197, facendo notare che i cristiani coltivavano la terra, si dedicavano ai commerci, frequentavano il foro, il mercato, le terme, le botteghe, gli alberghi, le fiere, in una parola vivevano con e come i loro concittadini. In effetti, i cristiani prendevano le distanze dai costumi e dalle forme di socialità del loro mondo, quando essi non erano compatibili con la loro fede e i loro valori.

I loro pasti in comune, gli agapi — oggetto di tante chiacchiere —, erano emblematici della socialità cristiana: sotto lo sguardo di Dio, erano caratterizzati da modestia, pudore e sobrietà (non si beveva troppo e si intonavano inni in onore di Dio). Un cristiano poteva frequentare le terme, ma per solo lavarsi; e poteva accendere incenso in onore dei defunti. «Quanto agli spettacoli, vi rinunciamo», scriveva ancora Tertulliano, che denunciava la follia del circo — dove le corse delle bighe scatenavano frenetiche passioni —, l’immoralità del teatro e le atrocità dell’anfiteatro — dove gli spettatori mostravano un piacere sadico di fronte alla morte di esseri umani costretti a trucidarsi a vicenda (i gladiatori) o a esporsi alle fiere — e accusava la vanità delle competizioni sportive. Se per quanto riguardava le corse e i cruenti giochi dell’anfiteatro la critica cristiana si avvicinava a quella di alcuni filosofi (gli stoici), essa conteneva anche una denuncia del carattere idolatrico e dunque diabolico — dal momento che gli dèi erano identificati con i demoni — di certe pratiche, di cui gli stessi contemporanei non avevano forse consapevolezza, come per esempio il carattere religioso della processione che precedeva le corse al circo o il fatto che i combattimenti dei gladiatori avessero origine dai sacrifici umani in onore dei morti. La rinuncia agli spettacoli, quindi, è indubbiamente un segno distintivo dei cristiani.

Chiesa nelle case
Chiesa nelle case

Raccomandando alle donne cristiane di «piacere soltanto al [loro] marito», e dunque di non ricorrere ad artifici di seduzione come il trucco, i gioielli e le vesti lussuose o impudiche, Tertulliano sosteneva che questa regola valesse in realtà per tutti, e che qualsiasi coniuge, cristiano o meno che fosse — caso tutt’altro che raro — considerava la castità il più bello degli ornamenti. In questo, la morale cristiana era in perfetto accordo con la morale comune, se non con le usanze. Tertulliano però esortava le donne cristiane a uscire di casa per soccorrere i poveri, per partecipare al santo sacrificio e ascoltare la parola di Dio; ammetteva le visite di amicizia a donne non cristiane perché potevano essere d’esempio. Allo stesso modo, Clemente Alessandrino, impegnandosi a «tratteggiare» nel Pedagogo (verso il 190) come “deve essere per tutta la vita chi vuole dirsi cristiano”, dava consigli molto pratici per vivere nel mondo con semplicità, moderazione e autocontrollo, e per fare buon uso di ciò che Dio aveva creato. Bisogna tenere conto, però, che questi consigli di morale e di vita quotidiana rappresentavano un discorso normativo indirizzato a un ceto sociale benestante. Sappiamo ben poco, infatti, della vita reale dell’anonima maggioranza di persone comuni, uomini e donne, cristiani o non cristiani. Inoltre, rimandare il battesimo al termine della vita permetteva di continuare a vivere “come prima”, senza contare la pressione sociale e le cariche alle quali i notabili delle città non potevano sottrarsi per nessun motivo.

Facendo dell’unione del Cristo e della Chiesa il modello del matrimonio, i cristiani gettavano le fondamenta di una vera e propria etica dell’unione coniugale, fondata sull’autocontrollo e la reciproca fedeltà degli sposi. Ne conseguiva che, per essere ammesso al battesimo, un uomo che viveva in stato di concubinato era costretto a contrarre matrimonio; al contrario, una schiava concubina del suo padrone, se ne aveva allevato i figli e non aveva rapporti sessuali con altri uomini, poteva comunque venire battezzata. Fra le correnti settane, come per esempio i marcioniti, che proclamavano la continenza assoluta sia per gli uomini che per le donne, così come fra quelli che negavano il primato della verginità (Gioviniano) o schernivano le donne sposate (Girolamo), l’equilibro era mantenuto dai responsabili delle comunità, che insistevano sul valore del matrimonio, sebbene nel IV secolo il modello della verginità consacrata venisse esaltato insieme allo sviluppo dell’ascetismo. Biasimando l’adulterio maschile e femminile e le pratiche sessuali dei ragazzi senza stabilire alcuna differenza tra liberi e schiavi, i predicatori cristiani contribuivano a instillare la consapevolezza che tutti uomini sono uguali e hanno la stessa dignità, contrariamente all’uso comune, i cristiani condannavano la pratica dell’esposizione dei neonati indesiderati, anche quando si trattasse di bambini deformi.

Rispondendo al magistrato che aveva il potere di condannarli a morte «io sono cristiano» e, forse ancora di più nel caso delle donne, «io sono cristiana», i futuri martiri di entrambi i sessi, rifiutandosi di fornire le proprie generalità, di rendere nota la loro appartenenza familiare o il loro grado di cittadini, accedevano, in nome della loro fede, alla dignità di persone padrone del proprio destino. A rivolgersi per primo alle donne fu Tertulliano, attraverso un trattato sulla toeletta: un’innovazione che avrebbe avuto seguito. Predicatori, retori e filosofi cristiani si occupavano dell’educazione dei ragazzi d’ambo i sessi, poi, nel IV secolo, iniziarono a occuparsi anche della verginità, del matrimonio e della vedovanza, in lettere e trattati spesso destinati a donne, contribuendo così allo sviluppo di una nuova etica familiare, dapprima in ambienti agiati e colti, ma in seguito destinata a diffondersi all’intera società.

In effetti, i cristiani vennero a trovarsi in una situazione paradossale, come spiega l’anonimo autore della Lettera a Diogneto (scritta ad Alessandria tra il 190 e il 210, e senza dubbio indirizzata a un magistrato incaricato di un’indagine sui cristiani): «I cristiani non differiscono in nulla dagli altri esseri umani […] non abitano città proprie, obbediscono alle leggi stabilite, ma con la loro vita superano le leggi». Simili e al tempo stesso differenti, i cristiani avevano valori e comportamenti diversi da quelli dei loro concittadini. A differenza degli stoici, che si volevano «cittadini del mondo», i cristiani «dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo». Abitando in tutte le città del mondo, erano come l’anima nel corpo. Orbene, «l’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; così, i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo». Pur consapevoli della loro identità e di ciò che essa comportava, i cristiani rivendicavano comunque, fatta eccezione per certe correnti settarie, la loro appartenenza a una famiglia, a una città, all’Impero romano, oltre che il loro attaccamento alla cultura greco-romana.

Fonti bibliografiche

Storia del cristianesimo a cura di A. Corbin
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