Con l’adesione di Costantino al cristianesimo, la fine delle persecuzioni e il riconoscimento della libertà di culto i cristiani si trovarono calati in un contesto radicalmente diverso; ormai, bisognava concepire l’impero romano all’interno del piano divino e di una logica di salvezza e ripensare il rapporto del sovrano cristiano con Dio e il suo posto nella Chiesa.
Negli Stati dell’Antichità la regalità umana era concepita come l’immagine terrena di quella divina, e colui che ne era investito era visto come il rappresentante in terra del sovrano celeste; l’esercizio del potere era un’imitazione sacralizzante dell’azione di Dio. La stessa Roma, del resto, aveva sacralizzato i suoi imperatori, sia attraverso il titolo di Augusto sia attraverso il culto imperiale; l’imperatore, nella sua qualità di pontefice massimo, era capo e responsabile della religione tradizionale.
L’imperatore come capo della chiesa
Eusebio fu vescovo di Cesarea, in Palestina, 313-314, e vicino a Costantino a partire dal 324. Apologeta, teologo e storico, fu il primo a formulare, in vari discorsi e opere, una teologia cristiana del potere e della storia, dimostrando come l’incarnazione del Verbo di Dio (il Logos) nella persona di Gesù fosse l’evento cruciale della storia dell’umanità, l’evento in grado di dare senso al tutto. Anche il fatto che esso si fosse verificato nell’Impero romano, al tempo di Augusto, non era una semplice coincidenza, ma l’attuazione del piano di Dio; da quel momento, «un Dio unico era stato proclamato a tutti e una regalità unica, quella dei romani, si era instaurata facendo fiorire per tutti, contemporaneamente, una pace profonda che abbracciava l’universo». Ormai c’erano un solo Dio e un solo imperatore: monoteismo e monarchia andavano di pari passo; la pace romana era il segno oggettivo di questa provvidenziale realizzazione, それでも, per diversi secoli, gli imperatori non erano stati cristiani e i cristiani erano stati perseguitati.
L’Impero romano veniva quindi accettato appieno, perché nel piano di Dio aveva la missione di assicurare l’unità e l’armonia del genere umano; l’espansione dell’impero e la pace romana creavano le condizioni necessarie alla realizzazione dell’”andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Con la sua riflessione sulla storia, Eusebio permetteva ai suoi contemporanei di pensarsi pienamente romani e cristiani, dal momento che «nel nostro tempo» questa vocazione dell’impero giungeva finalmente a compiersi. Divenendo cristiano, 詐欺 コンスタンティン, l’imperatore assurse davvero a immagine di Dio in terra; la sua regalità era l’immagine della regalità del ロゴ, di quel Figlio tramite cui il Padre, sovrano universale e onnipotente, esercitava la sua regalità sulla terra: «Il re amato da Dio, che porta l’immagine della regalità di lassù, regge il timone e governa, a imitazione dell’Onnipotente, tutto quanto è sulla terra») «Amato da Dio», l’imperatore cristiano era dotato di virtù carismatiche (ragione, saggezza, 善良さ, giustizia, temperanza, coraggio e soprattutto pietà: le stesse virtù del sovrano ideale della tradizione filosofica), che non considerava dei meriti personali, ma grazie ricevute dall’alto. In questo, era davvero «filosofo», perché «conosce se stesso», riconoscendo la propria posizione subalterna e aspirando al Regno di lassù, l’imperatore invocava il Padre celeste per la propria salvezza e per quella del popolo affidatogli. Ma di quale missione Costantino, che fu battezzato solo sul letto di morte, era stato concretamente investito dalla Chiesa? Tutto era ancora da inventare.
Se insegnare la vera dottrina, dare forza di legge a una formula di fede definita da un concilio, metterne in atto le decisioni, ordinare la costruzione di chiese, prendere misure nei confronti dei culti tradizionali erano ormai compiti che spettavano all’imperatore cristiano, che posto avrebbe avuto questi nella Chiesa se non fosse stato battezzato o fosse stato considerato eretico, o peggio ancora se avesse imposto un’ortodossia non accolta da tutti, in un contesto di gravi dissidi teologici?
Primi conflitti tra vescovo e imperatore
A partire dal regno del figlio di Costantino, Costanzo II (317-361), i vescovi che difendevano la fede stabilita dal concilio di Nicea (325) entrarono in aperto conflitto con le definizioni dei concili posteriori imposte dall’imperatore. Per questo furono deposti dal loro incarico e mandati in esilio. Le reazioni furono violentissime: in un libello particolarmente acceso, ヒラリー, vescovo di Poitiers, trattava Costanzo da Anticristo. Il posto dell’imperatore nella Chiesa e la sua competenza in fatto di definizione della fede andavano quindi ripensati. «L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa»: questa formula di Ambrogio, vescovo di Milano (339/340-397), sintetizza egregiamente il pensiero dei vescovi negli ultimi decenni del IV secolo, in particolare nell’Occidente romano. の中に 386, Ambrogio ricordò con fermezza i «diritti del sacerdozio» al giovane imperatore Valentiniano II non ancora battezzato: in materia di fede, «sono i vescovi a essere giudici dell’imperatore» e non il contrario, soprattutto se l’imperatore era sospettato di eresia o aveva commesso una grave colpa. の中に 390, il vescovo si rifiutò di accogliere in chiesa l’imperatore Teodosio, colpevole di aver ordinato in un empito di collera un massacro contro gli abitanti di Tessalonica, se non avesse fatto pubblica penitenza; l’imperatore si sottomise, in un modo di cui Ambrogio non mancò di sottolineare in seguito l’edificante esemplarità. Da un imperatore «vescovo degli affari esterni», come venne definito Costantino, a un imperatore «primo dei laici» come lo concepiva Ambrogio, è chiaro che l’idea dell’imperatore cristiano aveva subito un’evoluzione nel corso del IV secolo. Più che Costantino, ormai, il modello del sovrano cristiano ideale era Teodosio, che ne aveva tutte le qualità: timor di Dio e pietà, clemenza, padronanza di sé e umiltà; pertanto meritava la vittoria e, per lui e per il suo popolo, quella «felicità eterna che Dio dà soltanto a coloro che sono veramente credenti». L’umiltà appariva ormai la virtù essenziale dell’imperatore cristiano. A imitazione del Cristo, che si è fatto «obbediente fino alla morte», l’imperatore doveva essere sottomesso a Dio, ma anche alla Chiesa, in materia di fede, di condotta e persino nel modo di esercitare il potere.
しかし, se si era potuto pensare all’impero romano come a un regno voluto da Dio e giunto a compiutezza con l’impero cristiano, la disgregazione seguita agli attacchi dei barbari e la presa di Roma da parte dei Goti nel 410 costrinsero i cristiani a superare l’idea dell’eternità di Roma, a non collegare la sorte della Chiesa a quella di qualsivoglia Stato terreno, fosse pure cristiano, e a non confondere «gli estremi confini della terra» da evangelizzare con le frontiere dell’impero. «Orrore, l’Universo crolla», scrisse ma anche, chiamando alla penitenza: «Sono i nostri peccati a fare la forza dei barbari».
Dal canto suo, Agostino invitava a rileggere la storia di Roma e a riflettere sulla vecchiaia del mondo, destinato alla scomparsa, ma al quale il Cristo con la sua Incarnazione aveva arrecato la salvezza. Superando le rappresentazioni della città ideale, dilatata alle dimensioni del mondo, Agostino annuncia: «Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé». Non si trattava di contrapporre una città terrena e malvagia a una città celeste fuori dal tempo e disincarnata: si trattava di due amori distinti. Le due città non erano in contraddizione tra loro: quella terrena, che poteva far regnare la pace e la concordia, non era spregevole, ma insufficiente, e non poteva rappresentare un fine; la città celeste, nel suo viaggio sulla terra, superava e trascendeva tutte le forme di Stato: essa «attrae a sé cittadini di tutte le nazioni […] da tutti i punti della terra» per guidarli «verso il Regno che non avrà fine».
参考文献の出典
Storia del cristianesimo a cura di A. コービン